del primitivo

La Parola e il Tempo.

Ovvero, per un dativo etico o nel viceversa di un pensiero primitivo in un estetico.

 

 

di Francesco Pasca

Fra l’aggettivo e un dativo etico è comunque la morale il perno per il girare in rotazione di coinvolgimento emotivo o interessarsi per l’azione espressa da un Fare. Fare, dunque, è il verbo/perno dell’azione etica e, se s’aggiunge all’essere estetica, l’azione avrà valore per una morale e il giudizio.

Mi chiedevano, quando avevo animi che ascoltavano, cos’è il bello? Se la domanda fosse stata da me circoscritta ad un (se…) o ad un (s’è…), nella prima risposta avrei dato esito ad un incerto, nella seconda, l’esito sarebbe stato in un probabile e nell’incerto rafforzato da un dubbio in vero.

Oggi quel tempo è passato e quando ho continuato a dire del bello ho scritto di un bello che non c’è, che non poteva esserci.

Poi non contento di tale affermazione l’ho corretta con: Il bello che cerco non si vede.

Poi ancora ricorreggevo con un puntualizzare che mi allontanava da un probabile centro e il bello assumeva luogo e azione con: è lì, c’è, c’era, ma sono io a non vederlo o a determinarlo.

Non ancora contento ne ho riformulato il tutto con: Il bello se c’è sono e sarò sempre io a non volerlo vedere.

I passaggi descritti si sono da sempre dipanati e sin da quel tempo e lo sono stati per scorrere da una affermazione ad una probabilità poi per sortire in una giustificazione ed infine andare a concludere in una supposta negazione per una verità.

Mi rappacificavo così in una condizione etico estetica e l’idea così formulata andavo a cacciarla nei remoti di una mia fantasia tentando poi di estrarla e sperando di farla da altri estrarre dalle mie radici, e, da una qualsiasi mia possessione, perché di quello, ne ero certo, si trattava.

Ne feci di quell’idea un segno preciso sul mio territorio, come fa il gatto con i suoi spruzzi, non di mente e di memoria, quelli erano della mia immaginazione.

Per ridondanza di un’etica trasformai gli spruzzi in sprazzi, come dire: ho fatto un’attenta ricognizione di un idea e prima che venga dominata dalla costruzione di altri confini, possibilmente estetici, me ne approprio in territorio. 

Il repentino mio modo di fare fu dato per la quasi certezza che, tutti i concetti teorici, poi comportamenti etici, altro non sono che la trasformazione di un’oggettività in percezione.

Fin qui niente di assolutamente strano, anzi, il pensiero così formulato, mi permetteva di accomunare il mondo sensibile ad un sistema visibile, ad un insieme unitario di leggi, anche metafisiche e patafisiche nel proprio visivo.

Le ragioni di questa premessa sono state i sempre più presenti moniti nell’anch’io che ne scrivo, perché i Pensieri e le Parole gridano sempre e comunque, spero non solo nella mia mente ma anche in altra appartenenza di mondo anche se da me ritenuto sempre più incomprensibile.

I Pensieri tracciando tematiche differenti, tutte, inesorabilmente aprono la nostra coscienza alla riflessione, alla consapevolezza che, “tutto” è predisposto al “Cambiare”, ma che, in quell’altrettanto “tutto” è possibile anche trovarsi la causa di una distrazione come fosse stato, quel tutto, forzato dall’indifferenza del momento, da ciò che non riusciamo, preventivamente e mentalmente a farne l’esatta ricognizione di piene risorse culturali sul quel territorio di un “nostro” apparente bello o che sia o si appresti a divenire tale.

Le Parole in modo impellente, invece, servono a voler dare corpo al nostro “l’ho pensato” e sono per necessità di sopravvivenza e anch’esse testimonianza del risultato dal dettato di un’etica per un’estetica.

Per l’occasione mi son rifatto e fatto il mio territorio in un ritorno con cui definirmi, in cui circoscrivermi per un mestiere sporco di bello.

Esaurita la mia logica, ritrovare il senso della costruzione non deve essere la sola consapevolezza di un ritornare, c’è bisogno di un reale da cui incominciare o ricominciare.

In un pensiero primitivo, tutto va preso non a prestito, tutto va preso e basta, e, per essere del proprio primitivo, non occorre nemmeno restituirlo, ma spargerlo come cremazione di un corpo.

Impossessarsene o quantomeno andare ad allargare quel territorio marcato dai nostri “spruzzi”, può intensificare i significati anche nei confronti di una Cultura detta globalizzata, personalmente, il termine globalizzato lo sostituirei con “banalizzato”.

Il “Potere” ha banalizzato anche la cultura sino allo sperpero di ogni risorsa. 

Già l’aver chiaramente urlato con il mio scrivere mi appaga e, chi vuol fare l’orecchio da mercante, non ha che il solo contrario di un termine nel suo bello o di suo estetico di bello nel suo brutto.

Far emergere la questione è bivio su cui attendere.

A coloro che credono d’attuarsi per un altro decennio nella conventicola degli attuali estetismi, a costoro consiglio il continuare a proliferare nel monolitismo dialettico asfittico delle loro azioni e nel loro disfacimento etico.

Rinnegare il vero Status per un falso modernismo e non tentare di modificare a dare nuovo humus è il peggio da appurare in una demenza senile di tipo meramente critico-estetica.

La supposta e l’acclarata dell’oggi è lo Stato Culturale ch’è unicamente distribuzione dell’altrui possesso e strumento di e per una dignità etica non sodisfatta e per l’essere posta come falsa produzione di un sé, sarebbe l’equivale dell’ottenere un PIL Culturale basato solo sulla “merce” prodotta per il puro surrogato di un’estetica.

Tutto questo è, scusatemi se poi affermo di un bello che non c’è, né in me, né in altri che portano a ritenere la Cultura egemonia per il “Potere”.

Accorciare qualunque distanza non rende tutto accorciabile. La sofisticata teoria di un estetico etico è unicamente per gli instancabili ricercatori non più unicamente primitivi o ominidi e se ne spunta, filosoficamente, quell’accorciare con annesso o l’esile soffio di un nulla mal percepito o creduto percepibile solo per essere invisibile follia.

Occorre pensare e credere che il cristallo di neve è segnato dalle certezze della sua geometria.

Occorre altresì essere convinti che la combinazione di luci differenti danno colori differenti e ch’è il saper congiungere luce a luce e trarne altra luce e che, la luce non sia lo sporco di un buio del non voler vedere, né sentire, né se ne possa dilatare sempre e comunque la pupilla o congiungere all’infinito la distanza tra due punti con la pretesa di capirne il centro.

I punti sono tali se riusciamo a congiungerli e il buio è tale se consapevoli dei nostri limiti nel vedere.

È una lunga via quella di un riconoscimento estetico in uno sviluppo psicofisico/magico/etico in cui, poi, poter racchiudere, far gironzolare l’esito di Bello.

Nella coscienza di una propria spiritualità vale per un corretto utilizzo degli strumenti anche tecnologici che oggi sono mal posti al servizio di questa Civiltà. 

I Luoghi di sempre, ma da pochissimi frequentati, sono la ricerca del complicato nel semplice e può esservi solo in un vero da condividere.

La condivisione in ognuno, se presa dalla propria esigenza sia di lavoro o di conoscenza, è e diventa il semplice percorso utile a mettere in moto la fantasia e lanciarti in tempi brevi e non accorciabili, brevissimi quanti quelli occorsi per la creazione con un Big Bang e per ritrovarsi, in parole, del già vero pensiero primitivo. 

A saper controllare, ad esempio, se essere dei veri tarantati dell’oggi o si è solo nel trovarsi in un fenomeno o se s’è un baraccone di uomini con soli gesti solerti per non dare alcuna testimonianza di sé e non lasciare le tracce ocra o colorate di una bianca cera.

Sono sicuro che altre esperienze di ricerca dell’esistenziale siano nella conservazione psicofisica dell’uomo con i Fare.

Se, i differenti ritmi “tribali”, mi inducono all’animato e in serate di città, hanno solo “distrutto” la prima fatica, quella del “padre primigenio”, quella dell’ascoltare la natura ed ottenere da essa quello che è necessario per qualsiasi sopravvivenza etica in un conciliante estetico. 

Come in tutti i percorsi è la fatica e deve essere per alcuni versi anche catartica, ma solo se è unicamente fatica.

Le distanze apparentemente infinite sono solo colmate dalla curiosità, dalla curiosità manifesta, dall’ansia di vedere per primi quello che altri non hanno fatto in tempo a vedere, non voluto o non saputo vedere.

Oggi sono in un tempo di bello che c’è e che può non esserci.

Oggi non mi accontento più delle affermazioni e non le correggo con: Il bello che cerco non si vede, né lascio ricorreggere con il puntualizzare in un Centro che c’è, che c’era o che sono solo io a non vederlo.

Nemmeno ci penso a riformulare una condizione di bello. Non c’è e sono io a non volerlo vedere.

Oggi voglio continuare ad essere in una negazione per una verità che, sono sicuro ci sia in un coinvolgimento.

Oggi spero nel dativo etico, nel primo pensiero “primitivo” estetico.