d'umore o di tronco

Il fico torto

di Michela Maffei

C’era una volta un Fico Torto così chiamato perché nacque già storto, e non si sa se d’umore o di tronco. Probabile che fosse entrambi, tanto che ebbe la tenacia di crescere tutto sgobellato là dove la ragione dissuade la volontà, ma non ne volle sapere. Si ostinò e mise radici, toste come quella scorza di ribellione che covava verso tutti, come se proprio a lui gli avessero recato un’offesa, e prima ancora di fargliela, soltanto pensandola. Imbelle come una legione già a quadrato, pronto alla difesa che è già il miglior attacco, questo Fico era un mistero insondabile.

Di carattere e di aspetto impenetrabili, va a capire come era riuscito a impicciarsi dentro quel terreno duro, giusto sotto un muretto bianco a strapiombo sul nulla. Ma proprio in uno angolo, quasi attaccato al vuoto, cosicché ti appoggiavi e non sapevi se stavi ancora sussù o eri laggiù nel dirupo. Torto, dunque, perché se pure l’aveva scelto, non si può essere certi che qualcuno non ce l’avesse cacciato per sgarbo, in quel carruggio limitato a ridosso di un muro. Così cresceva bistorto e attorcigliato, come pure ad ogni fico che si convenga. E vallo a spiegare che il fico è traditore per detto, perché una volta fico, certe dicerie rimangono e te le porti al seguito, dovendoci fare la bocca. Fico Torto non ebbe grandi alternative, dunque, che caricarsi la croce, e tenersi del giuda, del malamente ritorto, senza contare tutta la resina che gli andava in bile, per dover crescere a contorsioni, come un gobbo smartellato.

Nessuno disse mai che era brutto o glielo fece notare, anche perché a Fico Torto tutta la durezza gli aveva seccata la parola e con i compagni della collina poco se la filava. Scontroso, caprone e selvatico, se ne stava per conto suo, a far veglia ai camini, come se fosse l’ultimo o l’unico fico. Bello era bello. La durezza ha la bellezza della Sincerità donata senza girarci attorno, quando protrarre la Verità è una scelta che reca più Male che Bene, e sotto la corazza c’è la Tenerezza. Perché d’estate – cos’era quell’estate se non una macchia profumata di foglie allargate? – si moltiplicavano filoni nuovi da cui pendevano promesse raccolte a settembre, annunciate da centinaia di albe in veglia con centinaia di soli ardenti. Anche d’inverno, si creda.


Cessava il labirinto di fronde innumerate, così innervate da lasciarci la pelle al passaggio e compariva la Nudità, quando la Solitudine non si può infiorare sotto il peso di migliaia di fichi. In questa trasparenza di forme scarne e fragili, di stecchi secchi e smunti, gelati dal vento innevato, sbattuti da piogge agghiacciate, c’era una Grazia che sapeva di Essenza, senza bisogno di Apparire, per Essere, almeno il Tempo di una Stagione, quando è ora di guardarsi allo Specchio, senza paura. C’era la forza celata della rinascita preparata con cura, quando i rami pesano sotto i frutti bianchi e rossi, con la polpa annunciata dal latte e dalla resina urticante.

Irritante od irritato, Fico Torto era così e tale veniva chiamato. All’inizio quando lo seppe ancora di più si fece torvo, ma poi ci fece l’abitudine o se la indossò come sua: conosci te stesso è riuscire a conoscere davvero l’Anima, ma essa esiste, senza poterla spiegare. Lo chiamavano in faccia “giuda traditore”, e questa storia dei trenta denari Fico Torto se la ripassava come la croce da portare addosso, per giunta con tutti i suoi fichi, così generosamente offerti. Perché la leggenda narra di cadute mortali dopo arrampicate imprudenti, attratte dal vigore ostentato, ma proprio Fico Torto non si sentiva in colpa per il sogno pure accolto di andare più in alto, rubando un’ora di gloria, un abbraccio al legno, un cesto di frutta. Alla fine così la sorte aveva deciso, che torto doveva essere, e in quella decisione lui ci si impallò, cocciuto come un tronco, che la vita l’aveva decisa anche lui, fino al fondo di quei mattoni bianchi dove continuava a perfezionarsi.

Ma se nessuno ti rassicura mai che sei bello, diventa faticoso il solo desiderarlo, così certe volte Fico Torto pareva pure brutto, almeno così si sentiva. Ma la malagrazia era più un sentimento di solitudine incessante mischiata ad un’ostilità non connaturata, ormai mantenuta per puntiglio, ché si risponde a mano con guanto e a sasso con pietra. Quante gliene avevano scagliate con tutti i loro peccati, ma quando ci si presenta come un’idea, la prima è quella che vale e va a far capire che tutto muta. Ormai aveva dato un’immagine, permanente, sicura, al di sopra e l’adesione non era solo apparente. Non potendo fuggire, non volendo cedere, dovendo restare, Fico Torto per reazione si infumò e più gli scagliavano pietre, più si allungava e si allargava.

Quell’estate Fico Torto coltivava una tristezza di perché sommersi: forse che gli mancava una parola amica, forse che avrebbe voluto trovare un motivo per tanta tortuosità e chili di fichi che facevano mostra di sé. Forse da secoli gli mancava una carezza. Da un po’ si era accorto che dietro il muretto che aveva ormai investito possente, sussurravano delle voci, non vedeva nessuno, ma argentavano fino a lui risate a chiocciola e lo solleticavano profumi di tavole affollate. Da un po’ i cuccioli gli giravano intorno e lui che doveva mantenersi burbero li spaventava e li ricacciava nei prati. Tra questi ce n’era uno più grosso, che pareva già grande, con un enorme testone disarmonico su di un corpo rozzo e zampe sproporzionate. Seppure adulta da un pezzo si chiamava Cucciola e l’infanzia gli era rimasta cucita addosso da quando se ne era andata, così, senza motivo e senza protezione. Oggetto di scherno e fastidi, non era temperamento da reagire per una mosca e preferiva allontanarsi, senza dare soddisfazione, con una sorta di alterigia dovuta alla consapevolezza. Fico Torto più volte l’aveva scacciata, come suo solito senza tante cerimonie, e più volte Cucciola lo aveva avvertito.

– Vattene via. Mi togli l’aria – Le diceva seccato Fico Torto.

– Un giorno staremo insieme – Gli rispondeva tranquilla Cucciola.

Un giorno però non ne ebbe la forza. Se ne stava da tanto così a macerarsi che la desolazione iniziò a mangiargli le energie, come scavandolo, lasciandogli appena un buco sopra la testa per respirare tra le foglie da cui si sentiva invaso. Credette quello fosse l’ultimo giorno e che fosse davvero finita. Si voltò in fretta, per farlo presto. La buccia scivolò. Fico Torto si torse, eppure di malavoglia, e ancora si contorse, allungando il collo. Mentre stava per farlo si accorse che qualcosa era di traverso, tanto per adeguarsi al Corpo avviticchiato, senza lasciare indietro la Mente. Sentì d’improvviso come un pigolio che era una carezza. Mente le forze lo abbandonavano, si aprì un varco sotto le gambe, ai piedi del tronco. Cucciola si era insinuata all’interno della prima breccia che cercava da tempo ed aveva infine trovato. Nel nodo di foglie e di branche si nascondeva un incavo sotto la pancia di Fico Torto e come lo trovò ci si avvoltolò, perché quando cerchi non sai mai cosa puoi trovare. Cucciola rimase lì, in una pace calda, mentre i dispetti degli altri cuccioli si perdevano con la malvagità e le voci si riunivano attorno al pane.

– Rimani con me. Disse Fico Torto, finalmente riconciliato.

– Non mi sono mai allontanata –. Rispose Cucciola tutta beata.

Proprio davanti al muretto dove il prodigio di un Torto era nato e il miracolo una Carezza aveva restituito la Vita, rimase a guardarli una minuscola talea. Oggi si narra di talee testarde come il padre e la madre che parevano solo frammenti e invece erano rametti destinati a radicarsi per rigenerare le parti mancanti, dando così nuovi esseri. Nessuno ne seppe mai più qualcosa.